domenica 15 luglio 2007

L'ARROGANZA DI RUTELLI

Paolo Leon*, 14 luglio 2007 da aprileonline.info

Si qualificano come riformisti, e chiedono un insieme di riforme sostanzialmente di destra (inevitabilità del lavoro flessibile, disoccupazione come colpa, indifferenza rispetto alla distribuzione del reddito, riduzione dei diritti sociali, trasformazione dello stato sociale in beneficienza pubblica, assoluzione delle rendite, il mercato come ottimo regolatore ecc.). Così, gli autori del "manifesto" accusano di conservazione chi giudica quelle riforme dei giganteschi arretramenti rispetto al patto democratico che regge l'unità italiana

Del manifesto di Rutelli, i giornali hanno messo in rilievo soltanto la necessità di allargare la maggioranza, così da isolare la sinistra della coalizione che, nel manifesto, è descritta come conservatrice. Non è la prima volta che la destra qualifica come "conservatrice" l'ala sinistra della coalizione; in generale, i conservatori e i reazionari europei qualificano di questo stesso aggettivo i loro partiti socialdemocratici. In parte, è un vizio che in Italia deriva da Berlusconi, che ha sempre accusato i suoi avversari delle colpe e dei difetti suoi propri, ma in parte deriva da un bel po' di arroganza.

Avendo deciso di qualificarsi come riformisti, e avendo descritto un insieme di possibili riforme sostanzialmente di destra (l'inevitabilità del lavoro flessibile, la disoccupazione come colpa, l'indifferenza rispetto alla distribuzione del reddito, la riduzione dei diritti sociali, la trasformazione dello stato sociale in beneficienza pubblica, l'assoluzione delle rendite, il mercato come ottimo regolatore, l'immigrazione come causa della violenza, ecc.), gli autori del manifesto accusano di conservazione chi ritiene quelle riforme essere piuttosto dei giganteschi arretramenti rispetto al patto democratico che regge l'unità italiana.
Che queste cosiddette riforme siano poi soltanto un tentativo di appropriarsi della simpatia dell'elettorato di destra (per definizione conservatore o, peggio, reazionario) non è visto come un'invasione del campo altrui, mentre, proprio per questo, il manifesto di Rutelli rivela una scarsa autonomia delle proprie idee e, per ciò stesso, una dichiarazione di vuoto programmatico. Non è la prima volta che occorre sottolineare come sollecitare i sentimenti antisociali degli elettori reazionari porta soltanto aiuto ai partiti che di quei sentimenti fanno la loro ragion d'essere.

C'è anche una certa sfacciataggine nel proporre i valori di destra come valori di sinistra: l'ambiente è coniugato direttamente con le grandi opere, senza nemmeno domandarsi se non sia necessario progettare in forma ambientalmente sostenibile; la democrazia è vista come decisionismo, perché il locale è localismo, la protesta è ribellismo, il dibattito è perdita di tempo. Inoltre, sollecitare la paura di fronte alla violenza è pura demagogia; sollecitare il merito come fonte di efficienza, ignora il problema di chi e come si decide chi sia meritorio. C'è, infine, un sottile disprezzo dell'eguaglianza, che è - si capisce - un disvalore, perché se si è eguali, non c'è alcuno che sia eccellente.

Naturalmente, nel manifesto ci sono anche cose condivisibili, tra le quali un accenno di critica al primo anno del governo Prodi, ma non si spiega perché il governo abbia perso tanto consenso: si preferisce dire che nel futuro si ridurranno le tasse, si aiuteranno le imprese, si rimetterà in moto la crescita. Questa parte, che implicitamente accusa Prodi di non aver fatto subito ciò che si sta facendo adesso, evita il problema delle compatibilità di bilancio pubblico: eppure, da un tale riformismo avrebbe dovuto emergere anche come si finanzia la nuova, e più amichevole, politica.

E' forse più interessante paragonare il manifesto di Rutelli con quello di Veltroni. Si capisce che i mondi sono diversi: tanto anti intellettuale il primo, quanto pensoso e bilanciato il secondo. Però una forte base conservatrice è visibile in ambedue le posizioni: il sindacato è visto come una lobby o, piuttosto, come una corporazione; il processo democratico è visto come inefficiente; il welfare è quello assistenziale, e non quello dello Stato sociale. La pace è assente in ambedue le posizioni, e l'Europa è considerata un dato, non un campo sul quale combattere.
Sotto sotto, anche se non lo dicono, ambedue stanno per confessare a se stessi che sinistra e destra sono termini ormai superati. Peccato: persone così capaci ed esperte dovrebbero aver letto, nella storia, che quando si arriva vicini a questa affermazione, si rischia di rotolare nell'autoritarismo.

* professore di Economia pubblica all'Università di Roma Tre, Presidente della Fondazione "Unasolaterra"

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