martedì 13 febbraio 2007

PARTITO DEMOCRATICO: UNICO E TRINO Di Gianni Zagato

da AprileOnLine.info
di Gianni Zagato Coordinatore Organizzativo della Mozione Mussi

E adesso che c'è, cosa se ne fa di questo Manifesto dei valori del partito democratico? C’è qualcuno in grado di spiegarcelo? Sarà votato dagli iscritti nei congressi di ds e Margherita, inaugurando in tal modo il doppio voto contestuale, quello che estingue i partiti esistenti e l’altro voto per il partito che sarà ? Oppure verrà archiviato agli atti, pronto per tesi di laurea sul tema? E ancora, il varo del nuovo partito avverrà nel 2008 – come si legge nel testo uscito ieri – o già entro quest’estate, come auspica convinto Dario Franceschini, il più candidato di tutti a guidarlo? Quante cose ancora continuano ad essere incerte, opache se non addirittura oscure a ridosso di questi strani congressi incrociati.

Dobbiamo senz’altro rispetto al lavoro e all’intelligenza dei dodici saggi, ma ora che il loro apostolato si è concluso bisogna dire che il risultato non semplifica ma complica il quadro politico e lo rende, se possibile, ancora più confuso.

Partiamo da una domanda semplice. A cosa serve questo Manifesto?, dov’è il suo luogo vero, il suo reale spazio politico? Sempre Dario Franceschini ha provato a convincerci, nei mesi scorsi, che il partito democratico non sarà un partito identitario, bensì programmatico.

Lo leggeremo meglio, lo rileggeremo, ce lo faremo spiegare, ma intanto ci sentiamo di dire che il testo che abbiamo sotto gli occhi non è né l’uno né l’altro. In discussione non è l’elencazione - per la verità più da arco costituzionale che da partito politico – di valori capitali come la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà, la pace, la dignità della persona. Sia detto senza iattanza. Questi valori – che certo come tali non nascono politicamente oggi, ma si affermano quanto meno a partire dall’epoca moderna – li ritroviamo scritti, esattamente così, nella carta costituzionale di ogni paese autenticamente civile e democratico, a cominciare dal nostro.

Ma un partito politico è un’altra cosa. E se lo connoto con una gamma di valori che è la stessa di ogni altri partito che si riconosce prima di tutto nel dettato costituzionale – i comuni valori fondanti che determinano la reciproca riconoscibilità di ciascuno e di tutti nell’essere un popolo e una nazione – allora non riesco più a capire né cosa sia né a cosa serva davvero un partito politico. E tanto meno poi riuscirò più a capire perché mai la storia ci abbia consegnato, forse da sempre ma senz’altro da alcuni secoli a questa parte, partiti che si definiscono di destra da altri che si definiscono di sinistra.

Silvio Berlusconi fonda Forza Italia tredici anni fa, nel 1994. Esordisce a reti unificate con la nota frase L’Italia è il paese che amo. Più o meno lo stesso incipit del Manifesto del nuovo partito. Memori di questo, si poteva forse trovare un altro incipit, sia per sfuggire al facile confronto sia perché è difficile trovare chi afferma il contrario e per una verità tautologica bastava il Berlusconi prima maniera. Anche nella tavola valoriale berlusconiana che lancia Forza Italia troviamo però l’elencazione della libertà, dell’equità, della solidarietà e della dignità umana. Dove sta la differenza? Naturalmente non vogliamo con questo dire che Forza Italia del ’94 e il Partito Democratico di oggi siano la stessa cosa, dirimpettai della politica. E non solo perché di là c’era (e c’è) Berlusconi a garantire per la destra populista e di qua c’è invece D’Alema a garantire per la sinistra riformista…

Vogliamo però dire che a forza di stemperare identità, appartenenze e collocazioni internazionali – anziché rimboccarsi le maniche e investire nel presente e nel futuro per rinnovarle e attuarle – non resterà alla fine che rifugiarsi in valori così universali da poter essere solo indistintamente condivisi. C’è infatti qualcuno che, definendosi cittadino italiano e vivendo in un paese democratico, non senta come propri i vincoli morali, culturali, antropologici verso un’idea di libertà come di uguaglianza, di pace come di solidarietà? C’è qualche movimento politico che possa – senza chiamarsi sol per questo fuori dall’ampio alveo costituzionale – avversare o addirittura negare programmaticamente quei valori? Ma non fu il laico e liberale Benedetto Croce già diversi decenni fa a spiegarci perché non possiamo non dirci cristiani? Che bisogno c’è dunque che oggi arrivi il caro amico Giorgio Tonini a dirci perché non possiamo non riconoscerci in quei valori che, egli scrive con altri, “trovano alimento nel pensiero politico liberale, socialista e cattolico democratico”.

Ma appunto queste tre culture politiche, proprio perché distinte e diverse ed espressione a loro volta di partiti politici distinti e diversi, hanno potuto insieme scrivere la Carta Costituzionale. E se, com’è evidente, la libertà di cui si parla nella Costituzione non può altro che essere la libertà di ciascuno e di tutti, così come la solidarietà, la pace, l’uguaglianza, un partito politico, che voglia fare e creare politica deve però dire come.

La pace, come? Con l’uso esclusivo della forza o a partire dalla lotta alla disuguaglianza? Uguaglianza, come? Rimuovendo all’origine le cause sociali che la inibiscono o adoperando politiche sussidiarie e puramente assistenziali? Dignità della persona, come? Riconoscendo reciproca autonomia tra sfera laica statale e sfera religiosa o pensando – come pensa oggi Fioroni – che così facendo si finisce per stare dietro la deriva zapaterista? I valori fondanti ci uniscono in un consesso civile e democratico, in una nazione e in un popolo, ma è come li decliniamo che trova esercizio la politica e spazio un partito piuttosto che un altro.

Ségolène ha presentato anche lei il suo programma per aprile, in cento punti. Rafforzare il welfare, cure mediche gratuite fino a 16 anni, costo zero per le pillole contraccettive per le donne fino a 25 anni, scolarizzazione dai tre anni, formazione professionale immediata per 180 mila giovani senza diploma, requisizione di case vuote da almeno due anni, aumento del 20% del salario minimo fissato per legge a 1.500 euro al mese, incremento del 5% delle pensioni più basse, sussidio pubblico pari al 90% del salario per un anno a chiunque perda il lavoro.

Fermiamoci qui, ma tanto basta per definirlo un catalogo insieme identitario e programmatico. La “SégoSphère” (il nuovo e felice nome di battaglia della campagna della Royal) può vincere o perdere, ma usa un lessico che evoca le grandi questioni – lavoro, diritti, sapere – e li declina da sinistra, da una prospettiva socialista.

E’ precisamente questo che non si trova da nessuna parte del Manifesto, ma se una simile mancanza conta poco o nulla per la Margherita, conta invece tutto per i Democratici di sinistra. Ed è questo il nodo, il punto in discussione, la cosa da decidere al congresso. Non solo un patrimonio da salvare, è anche una prospettiva da ricostruire.

Per questo occorre il linguaggio della verità, perché non si può dire una cosa nella mozione Fassino, una cosa diversa nella mozione Rutelli e un’altra cosa ancora nel Manifesto per il nuovo partito democratico.

Chi vota per la mozione Fassino, al punto cruciale di quale collocazione europea far parte dal prossimo aprile, con un solo voto terrà aperte tre differenti possibilità. Dirà si al Pse. Ma avendo votato per far nascere il nuovo partito, si fonderà con un suo dirimpettaio margheritino che nel contempo avrà detto no al Pse . Tutti e due poi voteranno insieme il Manifesto che non dirà né si né no, semplicemente perché ritiene che, nei valori del nuovo secolo che già corre veloce, il socialismo sia una delle scorie rimaste impigliate nelle macerie del passato.

Un partito che nasce così, rischia il corto circuito. Per sé e per la politica italiana.

1 commento:

A Sinistra ha detto...

Riceviamo da Lara e pubblichiamo sotto forma di commento un articolo pubblicato dal Riformista di martedì 13 febbraio 2007.

IL MANIFESTO DEL PD Senza lodi e senza infamie Viene in mente la scena di Borotalco in cui il truffatore Manuel Fantoni, interpretato dal grandissimo Angelo Infanti, viene arrestato e si congeda dall’anonimo rappresentante Carlo Verdone, alias Sergio Benvenuti. In quel momento parte una disputa su nomi e pseudonimi in cui Benvenuti sottopone il suo cognome al vaglio estetico di Fantoni, che sentenzia: «Potevi fa’ de mejo...».Quel poter «fa de’ mejo», declinato alla seconda persona plurale dell’imperfetto, è la prima cosa che ci viene da dire ai saggi estensori del manifesto del Partito democratico, reso noto ieri. Un manifesto per nulla infame, anzi. Ma senz’altro non meritevole di particolari lodi. Chiamati all’arduo compito di trovare una sintesi tra tante dicotomie, i saggi hanno scelto la strada più facile. Una strada che però - se questo basta ad assolverli - sembrava l’unica possibile: quella che porta a punto mediano. Il Partito dei democratici, quindi, nascerà «entro il 2008». Con valori che affondano le proprie radici «nel cristianesimo, nell’illuminismo e nel loro complesso e sofferto rapporto». Sarà un partito che vuole «contribuire a rinnovare la politica europea, dando vita, con il Pse e le altre componenti riformiste, a un nuovo vasto campo di forze, che colmi la carenza di indirizzo politico sulla scena continentale». Una forza politica che riconosce la laicità come «rispetto e valorizzazione del pluralismo»; ma al contempo, essendo «ben chiari i limiti della politica», dialoga sui temi etici. E ancora: un partito di donne e giovani (tanti), di teste e voti (una per ciascuno, vassallianamente), di primarie e di lavoratori. Un grazie «democratico» ai saggi, che hanno svolto con pazienza il loro lavoro. Senza infamie e senza particolari lodi. Certo, potevano fa’ de mejo. Ma se non l’hanno fatto, non è solo colpa loro.